Di Alessandro Papini
Introduzione
Il legame tra spirito e materia ha sempre affascinato la speculazione del pensiero umano ed è stato rappresentato in modi diversi nelle epoche e nelle civiltà secondo correnti filosofiche e religioni. Se è vero che, con l’impennarsi delle conoscenze scientifiche dopo l’età dei lumi, la razionalità ha sempre più fatto pesare le sue istanze a vantaggio di un materialismo sempre più spinto, fino a dichiarare che l’anima è un’epifenomeno della materia e negare ogni concetto di trascendenza, è anche vero che, con la crisi della fisica classica iniziata e poi dilagata nel secolo scorso, molte ricerche si sono mosse nel senso di una riqualificazione della dimensione spirituale mettendo in relazione i relativi fenomeni con le leggi delle meccanica quantistica (Faggin [1]).
Lo spirito, questa cosa particolarmente evidente negli esseri viventi, è ancora di definizione ambigua e risente delle tante influenze culturali. Nella terminologia scientifica vi si riferisce comunemente come “psiche”, “mente” o “coscienza”, mentre nelle dottrine filosofiche e religiose sono più comuni associazioni a concetti come “forza vitale” o “anima”, concetti che assumono accezioni diverse a seconda che si tratti delle religioni monoteiste, dell’induismo o del neopaganesimo, e che sfumano nell’indefinito nel caso del Buddhismo (ciò che più si avvicina ad essi, il “Pudgala”, non è altro che una delle manifestazioni della realtà – sei in tutto); nelle religioni cosmiche (Shintoismo, Taoismo e la molteplicità di correnti che va sotto il nome generico di “animismo”) l’anima è parte dello spirito che tutto permea e che è all’origine di tutto l’universo; concetto che si complica in modo particolare nelle dottrine Taoiste, in cui una forza primordiale, il “Qi” (o “Chi”), è preposta all’apparente dualismo fra spirito e materia e ne regola l’equilibrio.
In quest’ottica, si vuole fare il punto sul ruolo che la mente può giocare nel confine tra spirito e materia. Non si sta certo alludendo a fenomeni al limite del paranormale, come telecinesi, levitazione o esperienze extracorporee, ma piuttosto a meccanismi benefici e curativi che conseguono la corretta applicazione di pratiche psicomotorie, del tutto scontati nella medicina tradizionale cinese ma che solo di recente hanno trovato conferma in studi scientifici nel contesto accademico occidentale.
1. Taiji e meditazione
Spesso si fa molta confusione nel paragonare le pratiche di disciplina mentale. Anche il termine “meditazione” è del tutto generico, in quanto andrebbe specificato a quale genere di meditazione ci si riferisce; perfino la preghiera cristiana può avvicinarsi a una pratica meditativa, anche se ai nostri tempi i fedeli hanno completamente smarrito la valenza datagli dai primi pensatori cristiani, i quali, più o meno consapevolmente, operavano un sincretismo di pratiche ben più antiche [2].
La distinzione che andrebbe fatta è nel ruolo che nella pratica ha la fisicità corporale, intendendo per fisicità corporale una dimensione ben più ampia di quella che si considera generalmente. Se nei diversi tipi di meditazione la pratica è orientata all’emancipazione della mente (e questo avviene inevitabilmente a spese del corpo, come se per lo più si trattasse di un impaccio, fatta eccezione per i meccanismi della respirazione), nel Taijiquan (o più brevemente Taiji – “Tai Chi” nella vecchia trascrizione di pynin) lo scopo è quello di raggiungere un’armonia mente-corpo tale da favorire il fluire del Qi (grossolanamente traducibile come “energia vitale”): va da sé che in questa ricerca siano comunque implicite pratiche di natura meditativa.
A metà strada tra i due approcci potremmo collocare le discipline Yoga, dove il corpo è assoggettato a posture statiche o figure (“asana”) – o, nella disciplina dell’Ashtanga Vinyasa Yoga, a sequenze di esse –, allo scopo di liberare energia, distribuirla nelle diverse parti del corpo e veicolare il “prana” (“vita”, ma anche “respiro”, “spirito”). Dette discipline, però, nonostante l’indubbio coinvolgimento del corpo, non dedicano un’attenzione allo stato di connessione del gesto motorio come avviene nel Taiji.
Dopo aver sottolineato le differenze concettuali tra le suddette discipline, serve precisare che, dal punto di vista medico, i benefici riscontrati nella realtà e suffragati da numerosi studi suggeriscono l’orientamento di accomunare tra loro queste pratiche, che definiamo in modo generico “pratiche di discipline mentale”. Occorre precisare che a differenza di alcuni metodi di meditazione, il Taiji può anche prestarsi a situazioni di rieducazione motoria, anche in presenza di patologie disabilitanti : resta però il fatto che molte indagini sperimentali hanno trovato i meccanismi fisiologici che stanno alla base dei benefici psicofisici. E’ pertanto necessario fare il dettaglio su questi meccanismi.
2. Neuroplasticità ed epigenetica
Si deve qui circoscrivere le aree d’indagine della fisiologia dove si stanno maggiormente concentrando gli sforzi dei ricercatori in relazione alle pratiche di disciplina mentale, anche e soprattutto per le ripercussioni che le funzioni indagate hanno sul benessere dell’intero organismo.
La prima che si vuole qui menzionare è la neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di mutare in base alle esperienze. Fino agli anni ‘90 era convinzione largamente diffusa che l’unico cambiamento possibile fosse la perdita di neuroni conseguente all’età. Le nuove tecniche di neuroimaging hanno però documentato la natura altamente plastica e flessibile del cervello adulto umano [3].
Nel complesso la ricerca mostra che il cervello adulto è molto plastico, con cambiamenti a livello strutturale che possono avvenire nell’arco di poche settimane. Risultati incoraggianti sia per le neuroscienze che per la pratica clinica, che suggeriscono che le pratiche di meditazione sono in grado di modificare la funzione neuronale anche in tempi relativamente brevi. Degli studiosi che si sono cimentati in quest’area di ricerca vale la pena di citare almeno Richard Davidson [4], che nel 2005 invitò il Dalai Lama a partecipare al programma “Neuroscience and Society” dell’incontro della Società per le Neuroscienze.
La seconda area è quella dell’epigenetica, ovvero lo studio di quelle variazioni nell’espressione dei nostri geni, che non sono provocate da vere e proprie mutazioni genetiche, ma che possono essere trasmissibili. Utilizzando un linguaggio più tecnico, possiamo affermare che l’epigenetica studia tutte quelle modifiche e tutti quei cambiamenti che sono in grado di variare il fenotipo di un individuo, senza tuttavia alterarne il genotipo. Conrad Hal Waddington nel 1942 la definì come “la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto, e pone in essere il fenotipo”.
In un certo senso, una modificazione epigenetica può essere intesa come un cambiamento adattativo operato dalle cellule, quindi se vogliamo vi rientra quanto già riportato sulla neuroplasticità. Tali cambiamenti possono essere fisiologici, come avviene nel caso dei neuroni che adottano meccanismi epigenetici per l’apprendimento e la memoria, ma possono anche essere patologici, come avviene, ad esempio, nel caso dei disturbi mentali o dei tumori.
Altre importanti caratteristiche delle modificazioni epigenetiche sono la reversibilità e l’ereditarietà. Infatti, tali modificazioni possono essere trasmesse da una cellula all’altra, benché possano comunque subire ulteriori cambiamenti nel tempo, sempre in risposta a stimoli esterni.
Infine, le modificazioni epigenetiche possono avvenire in diverse fasi della vita e non solo a livello embrionale (nel momento in cui le cellule si differenziano) come si credeva un tempo, bensì anche quando l’organismo è già sviluppato.
Le modalità secondo cui le pratiche di disciplina mentale intervengono su questi processi possono essere diverse, ci si limita a citarne solo alcune:
– Riduzione dello stress: sia il Taiji che la meditazione sono noti per ridurre lo stress. Lo stress cronico può influenzare l’espressione genica attraverso modifiche epigenetiche.
– Infiammazione: Queste pratiche possono ridurre l’infiammazione cronica, che è associata a cambiamenti epigenetici.
– Regolazione del sistema nervoso: L’attivazione del sistema parasimpatico potrebbe influenzare i meccanismi epigenetici.
3. I meccanismi dell’espressione genica
Si reputa necessario allargare un po’ il discorso per andare a sfiorare tematiche più tecniche, perché molti studi vanno piuttosto nello specifico. Difficilmente studi sui cambiamenti nell’espressione genica dopo periodi di pratica intensiva di Taiji rimangono al livello del lettore medio, e non è raro che la trattazione volga sulla metilazione del DNA e sui telomeri / invecchiamento cellulare. Non si vuole certo affrontare qui argomenti di questa portata ma si ritiene giusto dare qualche indicazione per completezza o per indirizzare eventuali approfondimenti.
La metilazione del DNA è un processo epigenetico fondamentale che gioca un ruolo cruciale nella regolazione dell’espressione genica. Di per sé, non è altro che l’aggiunta di un gruppo metile (CH3) a una base azotata del DNA, tipicamente la citosina. Avviene principalmente nelle regioni del DNA ricche di sequenze CpG (citosina seguita da guanina).
Essa ha un preciso effetto sull’espressione genica: generalmente, la metilazione del DNA tende a silenziare i geni, inibendo la trascrizione. Può infatti impedire il legame di fattori di trascrizione o reclutare proteine che modificano la struttura della cromatina, rendendo il DNA meno accessibile.
La metilazione del DNA è uno dei meccanismi chiave attraverso cui l’ambiente può influenzare l’espressione genica senza alterare la sequenza del DNA stesso, rappresentando quindi un ponte tra genetica e ambiente. È un processo dinamico e reversibile, permettendo una regolazione flessibile dell’espressione genica.
È cruciale per lo sviluppo embrionale, l’inattivazione del cromosoma X, l’imprinting genomico e la stabilità del genoma.
Alterazioni nei pattern di metilazione sono state associate a varie malattie, inclusi cancro e disturbi neurologici. Per contro, molti studi provano che le tecniche di discipline mentale possono influenzare in modo benefico i pattern di metilazione del DNA
I telomeri sono complessi proteina-DNA che proteggono le estremità dei cromosomi , sono strutture specializzate dinamiche che fungono da guardiani della stabilità del genoma. Sono noti per essere uno dei principali determinanti dell’invecchiamento e della longevità. Coprendo le estremità cromosomiche(il DNA telomerico), proteggono efficacemente dall’instabilità del genoma, cioè da degradazione indesiderata e da eventi di fusione delle parti terminali dei cromosomi
La loro lunghezza è massima alla nascita e diminuisce progressivamente con l’avanzare dell’età ed è quindi considerata un biomarcatore dell’invecchiamento cronologico. La loro integrità è regolate a molti livelli diversi. L’accorciamento dei telomeri è associato all’età è collegato a varie malattie associate all’invecchiamento come diabete, ipertensione, morbo di Alzheimer, cancro.
La lunghezza media dei telomeri, misurata nei linfociti del sangue umano, è ritenuta un biomarcatore per l’invecchiamento, la sopravvivenza e la mortalità cellulare. Gli studi hannoinfatti dimostrato una correlazione diretta tra la lunghezza dei telomeri e l’aspettativa di vita, lo stress, i danni al DNA e l’insorgenza di malattie legate all’invecchiamento.
La regolazione della lunghezza dei telomeri è molto complessa e coinvolge più processi, sia la fase di replicazione del DNA sia lo stress ossidativo sono responsabili del deterioramento più rapido, e i fattori più importanti che influenzano i nostri telomeri sono sia di origine genetica sia ambientali: molti studi confermano che, tra i fattori ambientali, le pratiche di disciplina mentale giocano un ruolo positivo.
4. Studi scientifici
Nel 2005, 20 soggetti che praticavano mindfulness da lungo tempo e 15 soggetti di un gruppo di controllo, sono stati sottoposti ad un confronto dello spessore corticale. Nei meditatori lo spessore corticale nella porzione anteriore dell’insula e nella corteccia sensoriale, risultava di gran lunga superiore ai soggetti a loro appaiati per sesso, età, razza e anni di istruzione. E’ interessante sottolineare che un ridotto volume dell’insula è collegato a diverse forme psicopatologiche come ansia sociale, fobie specifiche, sindrome post-traumatica da stress (PTSD) e schizofrenia. Nei meditatori risultava essere più sviluppata anche la corteccia prefrontale, che abbiamo visto essere dedicata ai processi decisionali. Altre ricerche successive hanno trovato modificazioni significative anche nell’ippocampo e nel giro temporale inferiore sinistro. L’ippocampo ha un ruolo centrale nei processi di memoria mentre il lobo temporale inferiore è coinvolto nella costruzione di un senso di sé come agente [5]. Uno studio del 2013 è giunto ad analoghe conclusioni su praticanti di Taiji [6].
Una recente ricerca aveva come oggetto il tronco cerebrale, una regione deputata al controllo delle funzioni di base come la respirazione e il battito cardiaco. Questo studio ha suggerito un aumento della materia grigia nel midollo allungato del tronco cerebrale. Anche se i dati sono ancora preliminari, l’aumento della materia grigia in queste regioni potrebbe suggerire un aumento dell’innervazione dei centri corticali, con un conseguente miglior controllo top-down dei processi automatici [7].
Uno studio pubblicato nel 2014 su “Psychoneuroendocrinology” ha esaminato i profili di metilazione del DNA in praticanti di meditazione a lungo termine. I risultati hanno mostrato differenze significative in vari geni legati alla risposta allo stress e all’infiammazione [8].
Un altro studio su “Translational Psychiatry” (2016) ha rilevato cambiamenti nella metilazione del DNA associati alla riduzione dello stress dopo un ritiro di meditazione intensiva [9].
Una ricerca pubblicata su “Evidence-based Complementary and Alternative Medicine” (2012) ha analizzato la metilazione del DNA in praticanti di Taiji e si è osservato che gli effetti diventano evidenti a partire dai 45 anni, ovvero il Taiji potrebbe avere effetti protettivi contro il deterioramento delle funzioni epigenetiche con l’età [10].
Uno studio su “Complementary Therapies in Medicine” (2019) [11] ha esaminato gli effetti del Taiji sull’espressione di geni legati allo stress ossidativo e all’infiammazione in pazienti con fibromialgia.
Una ricerca pubblicata su “Cancer” (2014) [12] ha mostrato che la meditazione mindfulness potrebbe influenzare l’attività della telomerasi, enzima importante per il mantenimento dei telomeri.
Uno studio longitudinale su “Psychology & Health” (2017) [13] ha rilevato che la pratica di mindfulness era associata a una minor riduzione della lunghezza dei telomeri nel tempo.
Una revisione sistematica su “Frontiers in Immunology” (2017) [14] ha esaminato gli effetti di varie pratiche mente-corpo, inclusi Taiji e meditazione, sui biomarcatori dell’infiammazione e l’espressione genica.
5. Il corpo, un territorio inesplorato
Ora che si sono viste le forme di approccio del mondo accademico, per ragioni storiche impostato sul metodo scientifico occidentale, passiamo ad approfondire il legame tra corpo e spirito secondo l’antica tradizione, sulle cui basi si è sviluppato il Taiji.
Storicamente, l’origine del Taiji è incerta, molte leggende lo attribuiscono al monaco taoista Zhang San Feng (XIII sec.), noto per la sua vita ascetica e i suoi straordinari poteri, secondo una fonte recente l’origine del Taiji risalirebbe all’epoca delle Sei Dinastie (256-589).
Il Taiji rientra nelle “arti marziali interne” (“Neijia”), che si differenziano da quelle esterne (“Waijia”) per l’enfasi che viene posta su pratiche, appunto, “interne”, quali il rilascio delle tensioni, l’utilizzo dell’intenzione – lo Yi, e la circolazione del Qi, e si esprime mediante tecniche basate su morbidezza e fluidità: la ricerca è quindi su una diversa abilità motoria rispetto alle seconde, che focalizzano soprattutto su forza fisica, velocità e allenamento “esteriore” del corpo.
Bisogna precisare che il Taiji che spesso si pratica in Occidente ( ma anche in Cina) – non sempre è l’autentico Taiji tradizionale: si tratta di una disciplina accessibile a tutti, è vero, ma un mancato approfondimento della pratica significa esprimere movimenti superficiali e privi di consapevolezza pur esteticamente belli. Praticare il Taiji vuol dire invece attuare profonde connessioni con la meditazione e la gestione dell’energia interna, e nel suo concetto centrale, la consapevolezza dell’alternanza tra “pieno” e “vuoto”, tra yin e yang, è implicata la coltivazione “dell’embrione vitale”.
Sarebbe però incompleto chiudere il discorso sul Taiji senza fare riferimento alla Medicina Tradizionale Cinese (MTC), dal momento che essa ne costituisce il substrato millenario.
Alla radice della MTC si trova il concetto di energia che permea e connette tutto l’esistente e da cui dipendono tutti i fenomeni naturali, in MTC il corpo è paragonato a un regno nel quale dimorano “tre tesori” : il “Qi”, la cui funzione è di attivare, connettere, nutrire, proteggere, riscaldare, trasformare e conservare, cui si aggiungono lo “Jing” e lo “Shen”.
Lo Jing è l’essenza vitale, considerata la base della vita biologica. È spesso paragonato all’energia genetica o alla forza vitale ereditaria. Si pensa che sia una sostanza preziosa e limitata, da preservare nel corso della vita. Il Jing è presente fin dalla nascita: è il “Jing prenatale” e si ritiene venga ereditato dai genitori. Esiste anche il “Jing postnatale”, che viene nutrito attraverso cibo, aria e altre pratiche salutari.
Lo Shen, invece, è lo spirito o la coscienza superiore, la manifestazione della nostra mente e anima. È la più sottile delle energie e rappresenta la qualità della coscienza e della consapevolezza spirituale. Si manifesta come chiarezza mentale, pace interiore e consapevolezza del sè.
Lo Jing regola la crescita, lo sviluppo e la riproduzione ed è pertanto associato alla forza vitale, alla longevità e alla salute generale. Per contro, lo Shen governa la mente, le emozioni e la spiritualità ed è ciò che ci permette di connetterci a una realtà più elevata, all’armonia cosmica e alla saggezza interiore, la sua sede è nel cuore.
Mentre il Jing è connesso all’aspetto materiale del corpo e si presta a essere potenziato attraverso la pratica, lo Shen è legato alla mente e allo spirito. Risulta quindi evidente quanto nella tradizione cinese “corpo” e “spirito” siano due concetti profondamente radicati, entrambi nobilissimi, che appartengono a una stessa unità e si influenzano l’un l’altro.
Come si diceva, nella rappresentazione simbolica della tradizione il corpo viene rappresentato come un territorio o come un regno; quindi, come un complesso di funzioni e ruoli interconnessi al pari di ruoli politici e sociali, un microcosmo il cui benessere consiste nella bontà delle relazioni interne (tra le sue parti) ed esterne (con l’ambiente): il cuore rappresenta “l’imperatore”, i polmoni “i ministri”, il fegato “il generale”, e così via, inoltre ciascuno degli organi e visceri ha corrispondenza con il suo specifico elemento dei cinque elementi o agenti : acqua, legno, fuoco, terra e metallo.
Gli organi e i visceri, visti non più come semplici parti anatomiche ma come elementi di una “geografia sacra del corpo”,dotati delle stesse energie della natura, regolamentati dalle stesse leggi che regolano la natura, acquistano una funzione simbolica capace di influire direttamente sulla salute fisica e psichica della persona.
Questo approccio permette di interpretare i sintomi non come semplici disfunzioni biologiche, ma come segnali di squilibri delle energie. Questa particolare lettura, del corpo come un campo di forze simboliche e cosmiche e della malattia come un’interruzione dell’armonia tra questi diversi territori, comporta che la guarigione non possa avvenire solo con l’intervento sui sintomi fisici, ma sulla riorganizzazione delle energie di questi “distretti”.
A questo punto risulta ovvio come nel pensiero cinese le turbe psichiche siano messe sullo stesso piano di quelle corporali: corpo e mente non sono separati; il corpo è visto come un’entità dinamica che si manifesta attraverso relazioni e interazioni. D’altra parte anche in Occidente l’intera branca della psicosomatica riconosce che le emozioni, come stress e angoscia, hanno un impatto tangibile sull’organismo, suggerendo una connessione tra corpo e psiche. Non è un caso se lo psicanalista Jacques Lacan dedicò parecchi anni allo studio della lingua e di antichi testi cinesi, traendone influssi per il suo pensiero (per approfondimenti si rimanda a [14] e [15]).
Dovrebbe infine emergere la natura più genuina del Taiji, come disciplina di gestione dell’energia interna per armonizzare e rafforzare corpo e mente.
6. Sfide e limitazioni nella ricerca. Conclusioni
Sono chiare a questo punto le potenzialità su benessere e salute delle “pratiche di disciplina mentale”. La cosa che fa più ben sperare è il riscontro che questo tema ha avuto nelle ultime due decadi nell’ambiente accademico, prova la quantità di studi portati a termine ogni anno e di articoli che escono su riviste specializzate.
I traguardi che la ricerca sta perseguendo sono sostanzialmente quelli emersi nel corso della presente trattazione:
– prevenzione di malattie croniche attraverso modifiche epigenetiche positive;
– potenziale rallentamento dell’invecchiamento cellulare;
– miglioramento della risposta immunitaria e della resilienza allo stress.
C’è ancora molta strada da percorrere per affinare i metodi d’indagine. Come prima cosa, non emerge quasi mai il livello e l’intensità della pratica seguita dagli individui del campione oggetto dello studio, ed è lecito supporre che siano discriminanti non di poco conto. Inoltre, sono molti i fattori dello stile di vita che possono influire positivamente sul benessere di un individuo e non è affatto semplice separare gli effetti specifici di Taiji e meditazione. Ancora, gli studi portati avanti rivelano per lo più risultati statici, ovvero statistiche relative a situazioni cliniche istantanee su campioni di praticanti messi a confronto con gruppi di controllo. Andrebbero fatti studi longitudinali a lungo termine per confermare gli effetti duraturi. Infine, in generale, c’è una complessità oggettiva nell’interpretare i dati epigenetici in relazione alle pratiche mente-corpo, almeno con gli odierni strumenti d’analisi.
Quanto raccolto ed evidenziato, vale ancora la pena di sottolinearlo, non è che l’esempio dei primi passi impacciati del mondo accademico occidentale all’interno di una visione dell’uomo (inteso nella sua complessità di corpo e spirito) che è invece organica con l’approccio della MTC; per la quale, si ripete, la salute del corpo è profondamente legata all’armonia con l’ambiente e alle relazioni interne, e il cui simbolismo – che molti esponenti della medicina tradizionale non esitano a definire favolistici o ancor peggio folkloristici – è una chiave per comprendere e trattare le condizioni fisiche e psicologiche; e della quale, infine, la pratica del Taiji non è che il naturale complemento.
In conclusione, l’esistenza di quella fuggevole entità che in apertura s’è chiamata “spirito” – e che nella tradizione orientale e in particolare nella Medicina Tradizionale Cinese è un concetto ben consolidato, quasi scontato – nella pletora dei riferimenti accademici occidentali non viene né smentita né confermata. Tutti gli studi e le ricerche degli ultimi anni sono condotti secondo la prassi scientifica, con strumenti d’indagine fisiologica – ovvero che presuppongono interazione con la materia – e con precise specifiche sperimentali, e non c’è motivo di pensare che non sarà così anche in futuro. Rimane la speranza che, a un cento punto, anche qui nel civilissimo Occidente, il legame della mente con certi processi fisiologici – legame che pur nella sua evidenza ancora non è chiaro – possa rivelarsi talmente impalpabile da richiedere una forzatura delle barriere imposte dal pensiero corrente, e che a tale impalpabilità si arrivi a dare un nome.
Riferimenti Bibliografici
[1] Federico Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura (Mondadori, 2022).
[2] Evagrio Pontico, Sulla Meditazione (IV sec d.C.)
[3] B. Rael Cahn, John Polich, Meditation states and traits: EEG, ERP, and neuroimaging studies (2006)
[4] Richard J.Davidson, Antoine Lutz, Buddha’s Brain: Neuroplasticity and Meditation (2008)
[5] S. W. Lazar, C. E. Kerr et al., Meditation experience is associated with increased cortical thickness (2005)
[6] Gao-Xia Wei, Ting Xu, Feng-Mei Fan et al., Can Taichi Reshape the Brain? A Brain Morphometry Study (PLOS ONE, 2013)
[7] Chiesa A., Serretti A., Jakobsen J. C., Mindfulness: Top-down or bottom-up emotion regulation strategy? (Clinical Psychology Review 33, 2013)
[8] P. Kaliman, M. J. Álvarez-López, M. Cosin, R. J. Davidson, Rapid changes in histone deacetylases and inflammatory gene expression in expert meditators (2014)
[9] K. N. Harkess, J. Ryan, P. H. Delfabbro, S. Cohen-Woods, Preliminary indications of the effect of a brief yoga intervention on markers of inflammation and DNA methylation in chronically stressed women (2017)
[10] Ren, H., Collins, V., Clarke, S. J., Han, J.-S., Lam, P., Clay, F., et al., Epigenetic changes in response to Tai Chi practice: a pilot investigation of DNA methylation marks (2012)
[11] Ching-An Cheng, Ya-Wen Chiu, Dean Wu, Yi-Chun Kuan et al., Effectiveness of Tai Chi on fibromyalgia patients: A meta-analysis of randomized controlled trials (2017)
[12] L. E. Carlson, T. L. Beattie, J. Giese-Davis, P. Faris et al., Mindfulness-based cancer recovery and supportive-expressive therapy maintain telomere length relative to controls in distressed breast cancer survivors (2014)
[13] N. S. Schutte, J. M. Malouff, Shian-Ling Keng, Meditation and telomere length: a meta-analysis (2017)
[14] Ivana Buric, Miguel Farias, Jonathan Jong, Christopher Mee, Inti A. Brazil, What Is the Molecular Signature of Mind–Body Interventions? A Systematic Review of Gene Expression Changes Induced by Meditation and Related Practices (2017)
[15Il corpo in atto (www.latigrebianca.it, 2014)
[16] Cielo Uomo Terra: il Corpo simbolico in MTC (www.latigrebianca.it, 2014)